Vuoi davvero fare pace col cibo? (parte 3)

Con questo articolo chiudo la serie dedicata alle difficoltà, resistenze e incertezze legate al passaggio a un metodo non prescrittivo.
Nei precedenti post ho esaminato il punto di vista dei pazienti, facendo una distinzione tra chi soffre di un DCA e chi no.
Qui invece parlerò dal punto di vista del professionista della nutrizione che si approccia a un metodo non prescrittivo.

E I PROFESSIONISTI?

Ti svelo un segreto: nessuno dei professionisti italiani oggi non-prescrittivi è sempre stato tale, questo perché la formazione universitaria italiana ci prepara a confezionare diete.

Pertanto chi di noi decide di attuare questo tipo di modello fa un percorso per "sdietificarsi".
Per quanto mi riguarda, è stata la strada che per tanto tempo ho cercato ma a cui non sapevo dare una forma e un nome.
Ma ciò nonostante, in certi momenti faccio molta fatica anch'io.
Perché nei fatti ho passato tantissimi anni a dare consigli, a dare diete, a confezionare soluzioni.
Anche io sono stata grassofobica.

Sono stata per anni dentro la mentalità della dieta ed è davvero complesso non farsene più condizionare.
Anche quando tocchi con mano quanto questo sia deleterio per gran parte dei pazienti.
In più, sono immersa io stessa in una società grassofobica e dieta-dipendente, con l'aggravante che gran parte dei miei colleghi continua a prescrivere diete e vede nei metodi educativi non prescrittivi qualcosa di malefico da non incoraggiare.

IL PASSAGGIO ALLA NON PRESCRIZIONE DI UNA DIETA

Come per i pazienti avere in mano un piano alimentare può essere molto rassicurante, così anche per il nutrizionista stesso lo è.
Come mi dicevano due miei cari maestri, con la dieta "si va in soluzione".
E andare in soluzione dopo aver visto una persona una sola volta per un'ora o poco più...è decisamente riduttivo e rischioso.
Si possono prendere abbagli, ma soprattutto la sensazione di "aver fatto il nostro, ora paziente vai a casa e fai il tuo" è del tutto irrealistica.
 

LA DIETA AL PAZIENTE CON DCA

Cari colleghi: se pensate di trattare una persona con un DCA somministrandogli una dieta vi state sbagliando di grosso! 
Rivedete la letteratura in merito e se vi sentite in difficoltà: inviate il paziente a un altro collega che sappia prendersene carico.
So bene che proprio i pazienti con un DCA si sentono particolarmente attratti da una dieta, anzi: più dettagli ci sono meglio è, più è restrittiva idem. Se prevede dei menu prestabiliti settimanalmente ancor di più. Non fatevi fregare: è una delle facce della malattia che si automantiene e che non va assolutamente assecondata.
Altro aspetto importante: moltissime persone con un DCA non sanno di averlo, o lo sospettano ma lo nascondono, oppure pensano di averlo superato e raccontano "di quando soffrivano di quel DCA" tanti anni prima. Mi raccomando, drizzate le antenne, perché spesso si tratta di situazioni in cui è stata magari superata una fase acuta della malattia, ma non si è stati davvero in terapia e di conseguenza tutti i meccanismi patologici sono ancora pericolosamente presenti. 

Quali gli indizi per sospettare un disturbo del comportamento alimentare ancora attivo?

1. Valutazione di sé sulla base del controllo di cibo, peso e corpo;

2. Estrema preoccupazione verso peso, cibo e corpo;

3. Insoddisfazione persistente rispetto al peso e al corpo, con distorsione dell'immagine corporea;

4. Uso o evitamento del cibo per gestire emozioni e situazioni problematiche.

Questi aspetti possono essere presenti tutti insieme o solo alcuni di essi. Ma la constatazione di almeno 2 può già darvi un fondato sospetto (per la diagnosi di DCA si consiglia caldamente invio a collega psicologo psicoterapeuta o psichiatra formato in DCA).
E ricordatevi che i DCA sono un gruppo ampio e molto eterogeneo di disturbi di diversa natura, pertanto non stupitevi se certi pazienti apparentemente in buona salute e con un buon funzionamento generale possano avere un tratto o un disturbo sottosoglia.
Dai DCA si può guarire! Ma tutto sta nel percorrere il giusto cammino di cura.